Giornata della memoria

 

FEDERICA SENEGHINI, 27 GENNAIO 2021

«Prendevo appunti dove capitava. Foglietti, biglietti, i bordi di un foglio di giornale. Scappavamo e io non volevo dimenticarmi niente. Mi segnavo i particolari, le cose che mi succedevano intorno, i nomi delle persone. Adoravo scrivere. A scuola l’italiano era la mia materia preferita. Finché i fascisti non chiusero la scuola ebraica di Milano e io, come tanti altri bambini, fui costretta a smettere di studiare. Sfollammo a Parma, poi riuscimmo a fuggire in Svizzera. Papà ci precedette con la nonna. Io, mamma e le mie sorelle li raggiungemmo dopo. Se chiudo gli occhi mi sembra ancora di vedere quel filo spinato che separava l’Italia dalla salvezza». Ha la voce ferma Bruna Cases. Classe 1934, aveva nove anni quando con la famiglia riuscì a lasciare l’Italia grazie ad alcuni «contrabbandieri», come li chiamava allora e come li definisce tuttora. Gli uomini che per un po’ di denaro traghettarono lei e tanti altri oltreconfine. Una volta in salvo, la piccola trasformò quei bigliettini in un diario di fuga. Poche pagine che oggi sono custodite nell’Archivio della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano.

Raggiunta al telefono nella sua casa di Milano, Bruna Cases è stata felice di condividere quelle pagine così preziose, con noi. E noi siamo felici di ripubblicarle integralmente qui di seguito in occasione del Giorno della Memoria 2021.

La prima pagina del diario di Bruna Cases (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)La prima pagina del diario di Bruna Cases (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)

Diario, 31 ottobre 1943

L’Italia era occupata a nord dai tedeschi e a sud dagli inglesi, ma gli ultimi procedevano adagio adagio. Intanto i tedeschi maltrattavano gli ebrei; appunto noi eravamo di questi. Incominciammo quindi ad andare via da casa e pensammo di andare in Svizzera come facevano molti. Allora, fai le valigie di qua, disfa i sacchi di là, una cosa da impazzire. Finalmente fummo pronti, ci avviammo verso la stazione. Poco dopo eravamo a Varese, dai Rossi, nostri amici e siamo stati là un giorno o due. A Varese combinammo coi contrabbandieri che noi saremmo andati alla stazione e che loro ci avrebbero condotto in automobile fino a una cascina.

Alla notte si sarebbe passati; poi ci avrebbero condotti in un’altra casa (col telefono) di là avrebbero telefono a un deposito di macchine di venirci a prendere in automobili di condurci fino a Lugano. Invece nulla di tutto questo; siete curiosi? State a sentire come finì. Alla stazione aspettavamo impazienti che arrivasse l’automobile. Finalmente giunse un uomo che ci condusse in una rimessa e ci fece salire in un camioncino. Che delusione fu per me! Speravo di andare in una bella automobile, mentre invece mi trovai in una specie di stanzetta tutta chiusa con un solo forellino piccolissimo da cui potevo appena intravedere il paesaggio. Ad un tratto il camioncino si fermò con nostro gran spavento ma invece vidi che di fuori c’erano cinque o sei uomini che salirono anch’essi. Dovevano venire anche loro in Svizzera, con i loro bagagli. Poco dopo giungevamo alla cascina. Ci fecero entrare in un’ampia cucina ben riscaldata. C’era una numerosa famiglia. Due ragazze stavano facendo la polenta. Siamo stati là tre giorni e quattro notti. Le notti le passavamo ansiosi, aspettando i contrabbandieri che dovevano condurci al di là della frontiera. Finalmente vennero. Erano in due; ognuno di loro aveva una rivoltella; il capo, Guido, aveva un berretto di pelliccia bianca con in mezzo una croce nera. Queste due cose mi fecero molto effetto. Dopo un po’ partimmo; camminavamo al buio, in silenzio, inciampavamo nei solchi della montagna, entravamo in un bosco, finalmente la strada era piana; potevamo camminare un po’ più in fretta; ogni tanto la guida ci faceva fermare di colpo.La piccola Bruna Cases all’età di 8 anni, poco prima di fuggire in Svizzera. Nata a Milano il 7 marzo 1934, viveva con la famiglia in zona corso Monforte (archivio Cases)

Nel piccolo diario di Bruna Cases c’erano anche alcuni disegni. Nella pagina qui sopra la bambina disegnò il filo spinato che separava l’Italia dalla Svizzera (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)Nel piccolo diario di Bruna Cases c’erano anche alcuni disegni. Nella pagina qui sopra la bambina disegnò il filo spinato che separava l’Italia dalla Svizzera (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)

C’era pericolo. Perché degli uomini di tanto in tanto si avvicinavano; bisognava, quasi, trattenere il respiro. Sbucammo in una vasta prateria: bisognava allora fare il meno rumore possibile: eravamo vicino alla tanto desiderata frontiera. Ah, me ne dimenticavo! Prima di uscire dal bosco ci fecero fermare per un quarto d’ora; intanto andavamo ad esplorare i dintorni e a tagliare la rete. Poco dopo ci rimettevamo in marcia. Vedemmo una garitta che era proprio davanti al buco della rete, fortunatamente la sentinella non c’era. A uno a uno, silenziosamente, passammo attraverso il buco della rete. Che emozione! Finalmente eravamo in terra libera, in Svizzera.

Nella pagina qui sopra il momento in cui la famiglia Cases si nascose tra i cespugli per sfuggire alle forze dell’ordine che perlustravano il confine con una lampadina tascabile (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)Nella pagina qui sopra il momento in cui la famiglia Cases si nascose tra i cespugli per sfuggire alle forze dell’ordine che perlustravano il confine con una lampadina tascabile (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)

Le prime ore del nostro soggiorno in Svizzera i contrabbandieri ci dissero: «Andate in là, circa cento metri, vi raggiungeremo». Noi fiduciosi nei contrabbandieri non sospettando nulla, aspettammo un po’ più in là: quand’ecco che sentiamo parlare sommessamente, tendiamo le orecchie. «In che lingua parlano?», bisbigliarono tutti. «In tedesco», rispose qualcuno, ancora di più, frugavano i cespugli con una lampadina tascabile: non ne potevamo più. Eravamo là accovacciati, fu un miracolo, pensate, eravamo in undici, e non ci hanno visto! Poco dopo le voci si erano allontanate, respirammo, non c’era più pericolo. È vero che si trattava di svizzeri tedeschi, ma avrebbero potuto rispedirci in Italia. Per fortuna c’era con noi un certo dottor Segré. Egli disse: «Ci hanno traditi, andiamo avanti, ce la caveremo da soli». Poco dopo arrivammo a Stabio, evviva! Avevamo trovato la via buona.

(Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)(Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)

Appena giunti a Stabio, abbiamo interrogato i contadini: volevamo sapere dov’era il Comando. Eravamo stanchissimi. Arrivati al Comando, ci chiesero in tedesco:«Siete ebrei? Siete italiani». «Ja» abbiamo risposto noi. «Va bene - dissero loro - seguiteci». Sapete dove ci condussero? Alla mensa militare. Là ci diedero una bella tazzona di cioccolata e pane a volontà. Mi regalarono anche mezzo pacchetto di cioccolatini marca Lindt. Poi siamo andati in un piccolo giardino, là abbiamo aspettato un bel po’, poi rientrammo e ci fecero ancora sedere a tavola: c’era il pranzo. Ci tenevano molto gli svizzeri a nutrirci! Il pasto era composto di potage carne e patate. Era tutto fatto molto bene.

Poco dopo ci condussero alla dogana. Là ci chiesero nome, cognome e gli altri dati. Ci lasciarono molto incerti e ci dissero di andare fuori e di aspettare la risposta. Fuori eravamo custoditi da sentinelle le quali mi regalarono, di nascosto ai superiori, dolci e frutta. Tutte queste buone cose non potevano farmi dimenticare che in quei momenti si stava decidendo del nostro avvenire, vedevo la mamma in pensero che passeggiava su e giù nervosamente. Finalmente ci richiamarono e ci diedero il consenso. Figuratevi la nostra gioia! Non essere più perseguitati da quegli odiati tedeschi! Essere in terra libera, senza guerra, senza che nessuno si ammazzi l’uno con l’altro!

(Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)(Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)

La nostra gioia, però, fu un po’ turbata al sapere che solo uno dei nostri compagni di ventura poteva rimanere, gli altri quattro dovevano ritornare in Italia. Poveretti! Ora incomincia la nostra peregrinazione in Svizzera. Un po’ a piedi, un po’ issati su un carretto accanto ai nostri bagagli, siamo andati da Stabio a Mendrisio, da Mendrisio a Ligornetto. Ora avevamo l’animo più tranquillo e potevamo ammirare il magnifico paesaggio. «Attendete in questo piccolo caffè», ci disse a Ligornetto un gentilissimo ufficiale svizzero che ci accompagnava. «Io provvederò intanto a farvi cercare un alloggio per stanotte». Mi pare che sia stato impossibile trovare un alloggio vero e proprio, e abbiamo dovuto passare la nottata sulla paglia. La mattina prestissimo eravamo di nuovo pronte, partenza per Bellinzona: avremmo rivisto papà e la nonna che erano in Svizzera già da due settimane, mio fratello Cesare che non vedevamo da tanto tempo. Ben presto fummo disilluse. Ci accompagnarono all’asilo di Bellinzona, dove abbiamo passato i primi due mesi della nostra residenza in Svizzera. Ogni pochi giorni arrivava all’asilo un gruppo di persone stanche e depresse per le fatiche del passaggio dalla frontiera; ogni pochi giorni un gruppo di persone ripartiva per andare in altre residenze. Siamo state molto bene all’asilo, soprattutto per la gentilezza delle samaritane, ma fummo felicissime quando ci annunciarono che era stata accolta la nostra domanda di essere ricongiunte con papà in un campo misto.

Il libretto da rifugiata fornito dalle autorità svizzere alla piccola Bruna Cases non appena arrivata (archivio Cases)Il libretto da rifugiata fornito dalle autorità svizzere alla piccola Bruna Cases non appena arrivata (archivio Cases)

(Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)(Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)

Partenza quindi per Rovio dove avremmo dovuto, dopo un paio di giorni raggiungere papà a Lugano. Ma a Rovio abbiamo avuto il primo grande dispiacere; una telefonata da Lugano avvertiva che papà era stato trasportato all’ospedale con la polmonite. Il viaggio per Lugano che avrebbe dovuto essere pieno di gioia, fu naturalmente molto triste. E molto triste è stato tutto il primo periodo passato in questo magnifico albergo dove siamo tutt’ora. Da qualche giorno papà sta meglio e possiamo dunque godere un pochino: siamo un bell’albergo, al Majestic, dove abbiamo una magnifica camera riscaldata tutta per la nostra famiglia e un bagno attiguo a completa nostra disposizione, due balconcini da cui si vede una collina coltivata, alcune casette, il lago di Lugano, belle montagne che qualche volta sono coperte di neve, la ferrovia. Da quando sono qui è cambiata spesso la compagnia dei ragazzi con cui gioco….

27 marzo lunedì 1944

Alle 9 e 30 incomincia la scuola; dura fino alle 11 e 30, si fanno cose varie, un tema, un problema, lezione di storia o lettura di Pinocchio. Poi vado su e gioco un po’ con la palla. Quand’ecco: dan dan, suona il gong per il pranzo; mangio in fretta e furia, perché vorrei trovare il ping pong libero; se è libero, gioco un po’ ma dopo pochi minuti, ecco la mamma che vuole che io vada due ore in giardino perché, dice, che l’aria aperta fa tanto bene. Fino all’ora del caffè e e latte sto in giardino; dopo la merenda faccio i compiti.

Nella pagina qui sopra alcuni dei passatempi preferiti dalla piccola Bruna. Si riconoscono bene la racchetta da ping pong con la sua pallina, la corda per saltare, un pallone, un piccolo gong e i libri. La bambina amava molto leggere (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) Nella pagina qui sopra alcuni dei passatempi preferiti dalla piccola Bruna. Si riconoscono bene la racchetta da ping pong con la sua pallina, la corda per saltare, un pallone, un piccolo gong e i libri. La bambina amava molto leggere (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)

Se non sono molto lunghi faccio ancora a tempo a giocare alla palla. La palla e la corda sono la mia passione, ma la corda purtroppo non ce l’ho, ora cercherò di fabbricarmene una. Poi ancora suona il gong: è la cena. Mangio; questa volta non tanto in fretta perché alla sera non ho più voglia di giocare a ping pong, preferisco giocare con le mie amiche a carte o a palla. «Ancora a palla», direte voi. Ma ve l’ho già detto: a me piace tanto. Raramente passo la mia giornata in maniera diversa: esco per qualche ora e una volta siamo andati alla Casa d’Italia dove c’era uno spettacolo bello. Qualche sera c’è lo spettacolo anche qui.

29 marzo 1944, giovedì

Nella mia cameretta ci sono una finestra e un balcone che offrono una magnifica vista. Spesso sto sul balcone a prendere il sole: intanto osservo il bellissimo panorama: vedo il grande giardino con belle piante che ora incominciano a fiorire, alcune casette sopra una collina coltivata e più in là belle montagne che qualche volta sono coperte di neve. C’è una linea ferroviaria e il treno che passa per andare in Italia mi fa a volte pensare alla mia patria. Vedo anche la strada e mi piace osservare la gente che passa. Che bella vista che c’è qui in confronto a Milano! Qua c’è aria aperta mentre a Milano tutte le case sono soffocate da altre. Davanti alla mia c’era la scuola e i bambini che andavano avanti e indietro mettevano allegria.

La signora Bruna Cases in una foto recente (archivio Cases)La signora Bruna Cases in una foto recente (archivio Cases)

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